Articoli Commenti

Lenny Kravitz @ Lucca Summer Festival (2018)

24 luglio 2018 | commenta

Sesso droga e rock ‘n roll, null’altro. Kravitz vive a Parigi, ma lo considero un esiliato americano anti-Trump. Lenny non parla, non credo abbia mai pensato di affidare il discorso al linguaggio articolato. Dice cose cospicue, notevoli decisioni sull’esserci e sul non esserci, andare, stare, permettere, soffrire, godere. Sono solo appendici, informazioni per il non uso, a lato della sua musica. È convinzione di Lenny che gli umani non si intendano al di fuori del suono e del sesso. Niente malattia, niente inno alla gioia, solo pienezza del pensiero corporeo, felicità dei sensi in qualunque modo ottenuta. Garanzia di giustizia. Lenny canta come se il suo io che ogni tanto ammicca ai musicisti volesse lasciarlo lì e andarsene con la voce. È l’unico nella tempesta delle corde elettriche che osa sfidare con le corde vocali e, più profondo ancora, con lo stomaco e più giù, con il tesoro di organi genitali che gli restano attaccate al cazzo, come se non riuscisse a separarsi da tutte, nessuna esclusa, che nella folla lo considera il prodigio della sessualità insensata e appagante.
Lenny è la propaganda dell’uomo che non deve chiedere mai e a cui non si può imputare di essere stato deludente. Sembra non far mai trapelare castrazione alcuna, le bellezze che lo amano e lo hanno amato confermano. Non è potenza sessuale, è Nembo Kid che sul palco torna a Krypton e ci porta con lui sul suo mantello d’acciaio come un tappeto volante. Era molto in forma, chissà se è innamorato. Allora si può ferire.     
Il rock è scienza di dissimulazione e psicosmesi di ragazzi idealisti e romantici che si vergognano delle conseguenze dell’amore, negano ogni introversione, sostituiscono lo psicologismo con la molecola psicoattiva. Fondano la fede che la ricerca della felicità è l’acquisto della pillola della felicità.
Il rock non dimentica violenza e guerra. La violenza della musica non è il numero degli altoparlanti, i decibel, quanto l’intento politico sotteso, l’essere usato per servire il linguaggio verbale o scritto, in poche parole la razionalità.
Senza Vietnam non ci sarebbero, per esempio, né lui né Tarantino. Il suono della chitarra elettrica entra nel corpo attraverso tagli esangui, se ne frega dell’orecchio, l’ha perso per il sibilo delle bombe al Napalm.
Le chitarre elettriche non hanno emozione, non imitano le capacità umane, non si sottomettono alla compassione, non sono empatiche, sono armi di conquista delle masse.
Eppure è un romantico. In attesa di una discesa di tono per tre ore ho aspettato che si ammorbidisse, concedesse una inflessione di tenerezza, un attimo buio. Sempre ascensionale, estroflesso, la mano iperveloce dominava l’aria, espropriando alla proprietà capitalistica il possesso ora dell’Italia e prima dell’America. La chitarra elettrica, forse escluso Santana e Eric Clapton, è stata ribellione plurigenerazionale, devotamente ha imposto agli artisti di ricordare tutto il dolore, la distruzione che i giovani soldati americani hanno portato nei paesi del neoimperialismo. Non si può consolare nessuno, prima ti devi guadagnare i galloni sul campo, testimoniare cosa è successo con l’azione militare al target dei consumatori di suono stupefacente.
Non c‘è inciucio con la musica, nessun compromesso, il suono elettrico non si lascia corrompere. Rock è quell’attimo di gentilezza che placa il caos della mente di chi ha visto le viscere dei vivi in battaglia, il rock è l’ultimo grado di resistenza dell’umano alla violenza delle bombe intelligenti. Kravitz, non ha mai voluto sapere niente di tutto questo, ma le chitarre lo sanno.

 

Goffredo Carbonelli